Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 – Roma 1564), Sacra famiglia, (Tondo Doni), 1505 – 1506, Gli Uffizi, , tempera grassa su tavola, cm 120, s. 41, inv. 1890 n. 1456.
L’arte
Il tondo, forse un capoletto, fu commissionato a Michelangelo nel 1504 da Agnolo Doni, ricco mercante fiorentino, in occasione del matrimonio con Maddalena Strozzi . Fu un periodo cruciale per l’arte a Firenze: città c’erano Leonardo, Michelangelo e Raffaello, che contribuirono in maniera determinante allo sviluppo artistico del già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo celebrò dunque le nozze e la nascita della primogenita commissionando alcune opere d’arte a coloro che furono i protagonisti di questa eccezionale fioritura: il ritratto dei due coniugi fu dipinto da Raffaello, e il Tondo a Michelangelo (l’unico dipinto su tavola sicuramente attribuito al Maestro). Nel periodo Michelangelo studiava le potenzialità del formato circolare, assai apprezzato nel primo Rinascimento: realizzò in forma circolare alcuni arredi devozionali domestici, i marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e il “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in quest’ultimi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano ampiamente la superficie del rilievo. Il “Tondo Doni” è pensato alla maniera della scultura: la composizione piramidale della Famiglia in primo piano s’impone su quasi tutto lo spazio della tavola. Nella sua compattezza il gruppo ricorda la struttura di una cupola, animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione di gesti prodotti dal delicato passaggio del Bambino dalle mani di Giuseppe a quelle di Maria. La composizione risulta così articolata ed espressiva grazie alle conoscenze e studio di Michelangelo dei grandi marmi ellenistici (III-I secolo a. C.) che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Essi erano contraddistinti da movimenti a serpentino e da forte espressività. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte (scoperto nel gennaio 1506), sono citati puntualmente nelle figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe). La presenza di Laocoonte permette di ipotizzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia. Nella figura in secondo piano, a destra, pare che l’Autore abbia voluto “svelare” il proprio autoritratto; oppure che alcuni intendessero proditoriamente “svelarne” alcuni tratti biografici. Il basso muretto rappresenta il peccato originale. Il San Giovannino (a descrta), suggerisce infine l’interpretazione battesimale del dipinto.
Il vangelo
Gv 1,1-18 Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Dal Vangelo secondo Giovanni In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Le parole
In Principio, è la prima delle parole sacre della Bibbia; questo Vangelo ci porta in Dio stesso, principio di tutto e di ciascuno di noi messo nella condizione di essere veramente suo figlio. La vita in Dio – dove il Verbo è tutto rivolto al Padre – è anche la sostanza della nostra vita: veniamo da Lui, in Lui viviamo e a Lui torniamo. Anche tutta la creazione ha nella Parola la propria origine perché tutto è stato fatto per mezzo della Parola. Questa Parola, per noi uomini, è più che per le altre creature: è vita, è luce, ci fa essere e ci fa coscienti di essere, consapevoli del destino di partecipazione alla vita stessa di Dio.
Lotta. Fin dal principio è lotta fra la luce che splende e le tenebre che la rifiutano; queste, però, non “l’hanno vinta”. È il dramma della storia, ma anche la certezza dell’esito dell’assoluta inferiorità delle tenebre di fronte alla luce. La venuta di Giovanni è vero evento divino. Giovanni, la sua persona e la sua missione, sono eventi divini perché portano e mostrano la testimonianza non attraverso una manifestazione di potenza ma, al contrario, nel segno della piccolezza dinanzi a Gesù, il Messia Salvatore. Proprio il non-essere di Giovanni è il segno prezioso della sua testimonianza.
La luce, quella vera, non nascosta ci è donata in Gesù, è “per” noi. È la prova della fedeltà di Dio alla sua promessa. La luce è vera perché illumina ogni uomo; non c’è oscurità che non viene rischiarata dal dono che è questa luce. Il mondo che gli si oppone dice la struttura della creazione in esilio da Dio e la sua prigionia nel male che dà la morte. A chi accoglie la luce del Verbo è data la grazia di diventare figli di Dio. Non lo si diventa per merito dei “sangui” dei sacrifici degli animali, ma solo per la volontà di Dio.
Carne. Il Verbo si fece carne, assumendo cioè la condizione umana e, nel suo abbassamento, anche la più piccola e ferita. Il Verbo di Dio si vela e dis-vela nella povertà umana. Quella carne, cioè l’umanità di Gesù, è la massima rivelazione sia di Dio ma anche dell’uomo secondo Dio. Capace perfino di mostrarci la gloria che non era possibile vedere. È la Gloria, che sarà visibile nella sua suprema manifestazione, il Crocifisso. È per mezzo di Gesù Cristo che si sono rese presenti e pienamente manifestate la misericordia e l’amore di Dio.
La teologia (H.U. von Balthasar)
Per approfondire la liturgia del Natale, ci vengono riproposti i testi più importanti della Scrittura che ruotano attorno al miracolo dell’incarnazione e lo interpretano nella sua profondità. La sapienza abita in Israele. La sapienza di Dio, cioè il suo piano di salvezza con tutta la creazione, ha (nella prima lettura) sempre sott’occhio la totalità del mondo e della storia, ma realizza questo universale sempre da un particolare. Così Dio dà ordine alla sua sapienza, dapprima diffusiva, di trovare il «luogo del suo riposo» in Israele. La sapienza di Dio – versata secondo il libro della Sapienza su tutta la creazione, (così che non ci si deve meravigliare che certi uomini pii e cercatori di Dio hanno cercato di adorare Dio anzitutto nel meraviglioso ordine e bellezza del mondo e nella gloria dei corpi celesti, cf. Sap 13,1-6) a partire anzitutto da Israele divenne la definitiva autorivelazione di Dio, che trova ora il suo compimento in Cristo e nella sua Chiesa. Nessun’altra religione, al di fuori di quella biblica, conosce un’incarnazione di Dio. Il mistero dell’Incarnazione porta alla luce irripetibilmente la realtà più profonda e più nascosta della sapienza di Dio. Le “incarnazioni” ripetute nelle religioni pagane (greci, indiani) sono sempre e solo relative: ognuna infatti illumina l’essenza dell’assoluto solo da lontano, ed è integrabile con altri «avatar».«Tutto è stato fatto per mezzo della Parola». Nel Vangelo il Verbo-Creatore di Dio diventa «carne» in Gesù Cristo, ossia in un uomo come noi. Tutte le cose devono se stesse a questo Verbo, ma chi egli sia in verità si rivela al mondo unicamente se questo universalismo diventa un uomo singolo e tutto particolare. Quest’uomo ha avuto la forza di rivelare con tutta la sua esistenza agli altri uomini non solo che egli è il Verbo di Dio che tutto crea, ma che egli si dimostra come il Verbo uscito eternamente da Dio, sua origine e Padre. Un angelo non l’avrebbe potuto, perché non può morire, ma c’era bisogno della «Parola dalla croce» (1 Cor 1,18) per svelare l’ultimo mistero in Dio: che egli è amore, che va fino alla morte, fino alla consegna alla morte del suo massimamente Diletto – per amore del mondo (Gv 3, 16). Nessuna religione ha contemplato anche solo da lontano questa Parola che si è espressa in figura di uomo. Una vera religione non è né il tentativo di diventare noi stessi Dio (mistica), né di persistere nella distanza creaturale da Dio (giudaismo, islam), ma di conquistare la suprema unione con Dio precisamente sulla base di una perdurante distinzione tra creatore e creatura. La seconda lettura sintetizza tutto questo in modo del tutto chiaro in una «lode della gloria della grazia di Dio». La creazione nel Verbo di Dio era dall’eternità il piano di salvezza per mettere in rapporto con il Padre noi uomini e con noi tutto il mondo nella figliolanza dell’eterno Figlio. Anche se tutto questo doveva compiersi mediante l’incarnazione e la croce (Ef 1, 7). Ciò è qualcosa di così inconcepibile che l’apostolo supplica per noi lo Spirito Santo affinché noi possiamo comprendere «a quale speranza» siamo chiamati mediante il Figlio, giacché nessun uomo potrebbe supporre per sé una destinazione così immensa. Solo lo Spirito di Dio, posto nel nostro cuore, ci rende capaci di tale ardimento, di considerarci come «eredi» di tutta la «gloriosa ricchezza» di Dio. Ogni pensiero qui deve diventare un inno di ringraziamento.
Esegesi (Bruno Maggioni)
La liturgia ci invita a proseguire la meditazione sul mistero dell’incarnazione. Il cuore dell’uomo è abitato da un desiderio di vita, di luce e di conoscenza. Come dare una risposta a questo anelito di speranza, di pace, di pienezza di bene che l’uomo porta e aspira per sé e per il mondo intero? Nell’inno che apre la lettera agli Efesini (cf. 1,36.15-18), l’apostolo Paolo introduce il motivo della speranza: «[Il Padre della Gloria] illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza . vi ha chiamati» (v. 18). La speranza, a cui Paolo qui accenna, non si identifica con la speranza mondana, bensì la converte profondamente, rinnovando la. La prima novità è il fondarla non sulle previsioni degli uomini (quasi sempre molto insicure) ma sulla promessa di Dio di cui ti fidi totalmente. La seconda novità è lo sperare ciò che Dio ci ha promesso, cioè il trionfo dell’amore e della sua verità, non il trionfo di chi sa quali altre cose. Dio non sostiene le nostre speranze inutili o illusorie. Il passo dell’apostolo Paolo è preceduto da uno dei più importanti tra i testi dell’Amico Testamento che inneggiano alla figura della sapienza personificata e che costituisce il punto culminante di tutto il libro del Siracide (c. 24). La sapienza prende la parola per esprimere il suo ruolo nella creazione dell’universo e nella storia del popolo di Israele. Il progetto di Dio fin dagli inizi della storia è fondato e guidato dalla sua sapienza, ben oltre le attese e i desideri degli uomini. E nelle parole e immagini che descrivono la sapienza intuiamo che si allude al Verbo eterno per mezzo del quale tutto è stato fatto, nel quale il Padre, inviandolo nel mondo, ci ha detto e ci ha donato tutto. Veniamo allora al prologo di Giovanni: «In principio era il Verbo», così l’incipit del Vangelo di Giovanni, riproposto all’ascolto dei fedeli in questo tempo di Natale. L’evangelista sa benissimo che il Verbo è Gesù Cristo. Nonostante ciò il suo scopo è di illustrare l’affermazione centrale di tutto il testo. «Il Verbo si è fatto carne» (v. 14); ma per far capire chi è quest’uomo di cui parla tutto il Vangelo, guarda in alto, va alla radice, indicando così quale è la sua origine. Attira subito l’attenzione sul fatto che questo Gesù è parola di Dio e per descrivere questa Parola la metterà in rapporto a Dio e al mondo. Chiamare Gesù Cristo «Parola» è già un’ affermazione splendida e piena di speranza. Egli già in seno alla Trinità e, successivamente nella sua esistenza storica, è la Parola, non solo in quanto ha parlato, ma perché in tutta la sua persona, nelle sue parole e nei suoi gesti, rimanda continuamente al Padre, è la sua trasparenza. La parola è il mezzo con il quale noi comunichiamo, il pensiero che in qualche modo è nascosto si rende trasparente grazie alla parola e chi ci ascolta riesce a coglierlo. Gesù Cristo è quindi questa trasparenza del . Padre; con il termine «parola» s’intende non solo la comunicazione, ma anche la ragione, !’intelligenza. Gesù, in quanto parola di Dio, non è una parola vuota, secondaria, che non dice nulla, ma è una parola luminosa, una parola intelligente, una parola che incanta, una parola nella quale si può scoprire una ragione, una logica. Gesù, che è Parola, viene pure riconosciuto e professato come vita e luce degli uomini (cf. v. 4): vita e luce sono due simboli fondamentali ed esprimono ciò che l’uomo cerca e vorrebbe avere. Tuttavia se il mondo ha estremamente bisogno di questa luce che splende, in realtà non ne vuol sapere, la rifiuta: «e le tenebre non l’hanno vinta» (v. 5). Si osservino anzitutto i tempi verbali. Per la luce si ricorre al presente «splende», per il rifiuto della tenebra al passato («non l’hanno vinta»). La luce brilla sempre, appartiene alla sua natura illuminare. Questo è il significato del presente. Per la tenebra invece un verbo al passato, per dire che si tratta di un fatto storico, non di una necessità, un fatto che potrebbe esserci e non esserci, perché dipende dall’uomo e dalla sua libertà. Questo significa che nessuno può far cessare la luce che proviene da Cristo: essa brilla sempre, ovunque. La tenebra può rifiutarla, ma non spegnerla. Il dramma è profondo ma lo spazio della speranza è sempre aperto. Nel prologo c’è un’altra affermazione che, ancora più profondamente, costituisce il fondamento di tutta la speranza cristiana: «Il Verbo si è fatto carne» (1,14). Carne è l’uomo nella sua caducità e nella sua debolezza. Per comprendere la forza di questa affermazione di Giovanni basta confrontarla con un’ affermazione del profeta Isaia: «Ogni uomo è come l’erba [ …]. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la Parola del nostro Dio dura per sempre» (40,6.8). Per il profeta tra la parola di Dio e la caducità dell’uomo c’è un «ma» che indica tutta la distanza fra l’inconsistenza dell’uomo e la solidità di Dio. Nel prologo di Giovanni, invece, il «ma» è scomparso. La solidità della parola di Dio si è fatta carne, ciò che permane ha assunto ciò che è caduco: nel cammino di ogni uomo e dell’intera umanità si è inserita una presenza che salva dalla vanità e dall’impermanenza.
Catechesi
La celebrazione del Giubileo ci fa contemplare Gesù Cristo come punto di arrivo del tempo che lo precede e punto di partenza di quello che lo segue. Egli ha infatti inaugurato una storia nuova non solo per quanti credono in Lui, ma per l’intera comunità umana, perché la salvezza da Lui operata è offerta ad ogni uomo. Ormai in tutta la storia si diffondono misteriosamente i frutti della sua opera salvatrice. Con Cristo l’eternità ha fatto il suo ingresso nel tempo! “In principio era il Verbo” (Gv 1,1). Con queste parole Giovanni comincia il suo Vangelo facendoci risalire al di là dell’inizio del nostro tempo, fino all’eternità divina. A differenza di Matteo e di Luca che si soffermano soprattutto sulle circostanze della nascita umana del Figlio di Dio, Giovanni punta lo sguardo sul mistero della sua preesistenza divina. In questa frase, “in principio” significa l’inizio assoluto, inizio senza inizio, l’eternità appunto. L’espressione fa eco a quella presente nel racconto della creazione: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Ma nella creazione si trattava dell’inizio del tempo, mentre qui, ove si parla del Verbo, si tratta dell’eternità. Tra i due princìpi, la distanza è infinita. E’ la distanza tra il tempo e l’eternità, tra le creature e Dio. Possedendo, come Verbo, un’esistenza eterna, Cristo ha un’origine che risale ben al di là della sua nascita nel tempo. Questa affermazione di Giovanni si fonda su di una precisa parola di Gesù stesso. Ai giudei che gli rimproverano la pretesa di aver visto Abramo pur non avendo ancora cinquanta anni, Gesù replica: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo venisse all’esistenza, Io Sono” (Gv 8,58). L’affermazione sottolinea il contrasto fra il divenire di Abramo e l’essere di Gesù. Il verbo “genésthai” usato nel testo greco per Abramo significa infatti “divenire” o “venire all’esistenza”: è il verbo adatto a designare il modo di esistere proprio delle creature. Al contrario solo Gesù può dire: “Io Sono”, indicando con tale espressione la pienezza dell’essere che rimane al di sopra di ogni divenire. Egli esprime così la coscienza di possedere un essere personale eterno. Applicando a sé l’espressione “Io Sono”, Gesù fa suo il nome di Dio, rivelato a Mosè nell’Esodo. Dopo avergli dato la missione di liberare il suo popolo dalla schiavitù in Egitto, Jahvè, il Signore gli assicura assistenza e vicinanza, e quasi come pegno della sua fedeltà gli svela il mistero del suo nome: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). Mosè potrà dunque dire agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi” (ibid.). Questo nome esprime la presenza salvifica di Dio a favore del suo popolo, ma anche il suo mistero inaccessibile. Gesù fa suo questo nome divino. Nel Vangelo di Giovanni questa espressione appare più volte sulle sue labbra (cfr 8,24.28.58; 13,19). Con essa Gesù mostra efficacemente che l’eternità, nella sua persona, non solo precede il tempo, ma entra nel tempo. Pur condividendo la condizione umana, Gesù ha coscienza del suo essere eterno che conferisce un valore superiore a tutta la sua attività. Egli stesso ha sottolineato questo valore eterno: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Mc 13,31; par.). Le sue parole, come anche le sue azioni, hanno un valore unico, definitivo, e continueranno ad interpellare l’umanità sino alla fine dei tempi. L’opera di Gesù comporta due aspetti strettamente uniti: è un’azione salvatrice, che libera l’umanità dal potere del male, ed è una nuova creazione, che procura agli uomini la partecipazione alla vita divina. La liberazione dal male era stata prefigurata nell’Antica Alleanza, ma solo Cristo la può pienamente realizzare. Solo Lui, come Figlio, dispone di un potere eterno sulla storia umana: “Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8,36). La Lettera agli Ebrei sottolinea fortemente questa verità, mostrando come l’unico sacrificio del Figlio ci abbia ottenuto una “redenzione eterna” (9,12), superando di gran lunga il valore dei sacrifici dell’Antica Alleanza. La nuova creazione può essere realizzata soltanto da Colui che è onnipotente, poiché implica la comunicazione della vita divina all’esistenza umana. La prospettiva dell’origine eterna del Verbo, particolarmente sottolineata dal Vangelo di Giovanni, ci stimola a penetrare nella profondità del mistero di Cristo. Andiamo, dunque, verso il Giubileo professando sempre più fortemente la nostra fede in Cristo, “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”. Queste espressioni del Credo ci aprono la via al mistero, sono un invito ad accostarlo. Gesù continua a testimoniare alla nostra generazione, come duemila anni fa ai suoi discepoli ed ascoltatori, la consapevolezza della sua identità divina: il mistero dell’Io Sono. Per questo mistero la storia umana non è più abbandonata alla caducità, ma ha un senso ed una direzione: è stata come fecondata dall’eternità. Per tutti risuona consolante la promessa che Cristo ha fatto ai suoi discepoli: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Giovanni Paolo II, In Principio Era Il Verbo, (Catechesi del 26 novembre 1997). I
uomini la partecipazione alla vita divina. La liberazione dal male era stata prefigurata nell’Antica Alleanza, ma solo Cristo la può pienamente realizzare. Solo Lui, come Figlio, dispone di un potere eterno sulla storia umana: “Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8,36). La Lettera agli Ebrei sottolinea fortemente questa verità, mostrando come l’unico sacrificio del Figlio ci abbia ottenuto una “redenzione eterna” (9,12), superando di gran lunga il valore dei sacrifici dell’Antica Alleanza. La nuova creazione può essere realizzata soltanto da Colui che è onnipotente, poiché implica la comunicazione della vita divina all’esistenza umana. La prospettiva dell’origine eterna del Verbo, particolarmente sottolineata dal Vangelo di Giovanni, ci stimola a penetrare nella profondità del mistero di Cristo. Andiamo, dunque, verso il Giubileo professando sempre più fortemente la nostra fede in Cristo, “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”. Queste espressioni del Credo ci aprono la via al mistero, sono un invito ad accostarlo. Gesù continua a testimoniare alla nostra generazione, come duemila anni fa ai suoi discepoli ed ascoltatori, la consapevolezza della sua identità divina: il mistero dell’Io Sono. Per questo mistero la storia umana non è più abbandonata alla caducità, ma ha un senso ed una direzione: è stata come fecondata dall’eternità. Per tutti risuona consolante la promessa che Cristo ha fatto ai suoi discepoli: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Giovanni Paolo II, In Principio Era Il Verbo, (Catechesi del 26 novembre 1997). I
1. Lo scopo dell’Incarnazione
Il figlio di Dio, in effetti, si fece figlio dell’uomo perché i figli dell’uomo, cioè di Adamo, divenissero figli di Dio. Infatti il Verbo che lassú fu generato fuori del tempo dal Padre in modo ineffabile, inesplicabile, incomprensibile, viene quaggiú generato nel tempo da Maria Vergine e Madre, perché quelli che prima furono generati quaggiú siano poi generati lassú, cioè da Dio. Egli quindi ha in terra solo la madre, e noi abbiamo in cielo solo il padre. Per questo chiama se stesso figlio dell’uomo, perché gli uomini chiamino Dio padre celeste. Padre nostro, dice, che sei nei cieli (Mt. 6,9). Dunque, come noi servi di Dio siamo di Dio, cosí il Signore dei servi è diventato figlio mortale del proprio servo, cioè di Adamo, affinché i figli di Adamo, che erano mortali, divenissero figli di Dio; infatti sta scritto: Ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). Quindi il figlio di Dio prova la morte in quanto generato dalla carne, perché i figli dell’uomo siano fatti partecipi della vita di Dio in quanto loro padre secondo lo Spirito. Egli dunque è figlio di Dio secondo natura: noi invece per mezzo della grazia. (Atanasio, De incarnatione, 8)
Sull’Incarnazione
1. E’ nato oggi per noi il Salvatore. Oggi dunque è sorto su su tutto il mondo il vero sole. Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio. Perché il servo si cambiasse in padrone Dio prese la condizione di servo. Abitò sulla terra l’abitatore dei cieli perché l’uomo abitatore della terra potesse trovar dimora nei cieli. E’ nato per noi oggi il Salvatore. Venne al mondo sottoponendosi alle prescrizioni della legge che doveva essere superata; nato dal Padre perennemente, dalla Madre una volta. Noi possiamo infatti registrare due natività del Signore nostro Gesù Cristo: anzitutto quella divina, poi quella umana, ma l’una e l’altra senza dubbio mirabili; quella perché mancò l’intervento della madre, questa perché mancò quello del padre; una eterna, per creare gli uomini nel tempo, l’altra nel tempo, per darci l’eternità. Egli dunque come Dio è uguale al Padre, e ancora lui, come servo, è soggetto al Padre. Il Creatore dei tempi è nato nel tempo: e si è fatto tanto piccolo da poter essere dato alla luce da una donna; ma rimase comunque tanto grande da non rimanere separato dal Padre. Queste due nascite sono attestate da due Evangelisti, all’inizio. Uno infatti dice così della nascita divina: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In quanto alla natività umana, così riferisce un altro Evangelista: Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide. Quello allude alla nascita del Signore, questo al giorno della seconda natività. Esultiamo e rallegriamoci in esso. Non è senza ragione che, aumentata da questo momento la durata del giorno, oggi vi sia un incremento di luce, dal momento che al genere umano in questo giorno è comunque venuta la luce vera. Giustamente prolunga il percorso del sole quel giorno che ci ha portato il Cristo, in virtù del quale siamo liberati dalle tenebre della morte. Come le lampade i Profeti hanno preceduto il giorno della sua nascita annunciando che egli sarebbe venuto, e con chiarissimi messaggi hanno fatto conoscere i miracoli che avrebbe compiuto nella sua vita. Era giusto annunciare che sarebbe venuto, perché non si dubitasse di lui una volta venuto. Pertanto il nostro Dio dimorò uomo in mezzo agli uomini. Allo sguardo apparve uomo, all’intelletto Dio; offrendosi come uomo a chi lo vedeva, riservandosi Dio a chi credeva in lui. Perciò l’aspetto della sua debolezza salvò i deboli, mentre la contemplazione della sua divinità è rivolta a quelli che sono fermi nella fede. 2. Vi prego, carissimi, di osservare quanto sia grande questo mistero di verità. Aveva dato la legge, aveva mandato i Profeti per salvare gli uomini, e quando questi rimedi per sanare le debolezze umane cessarono, lo stesso Dio volle offrirsi agli uomini per la loro salvezza. D’altra parte gli uomini non potevano vedere Dio nella sua sostanza e neppure dovevano porre la loro speranza nel solo uomo. Che fare dunque? Non dovevano limitarsi a seguire l’uomo; non bastava seguire l’uomo che si può vedere. Si doveva seguire Dio che non si può vedere. Per mostrarsi dunque all’uomo tale da poter essere visto e da poter essere seguito, Dio si è fatto uomo. Infine, quando era già in mezzo agli uomini, stando insieme a tre Apostoli che aveva condotto in segreto con sé, all’improvviso sfolgorò loro davanti nello splendore della divina gloria, cosa che gli Apostoli lì presenti a stento poterono sostenere con lo sguardo per la debolezza della condizione umana. Volle nascere in condizione umana perché noi nascessimo in lui e per consacrare ai futuri fedeli i misteri della seconda natività; affinché noi che eravamo soggetti ai dolorosi limiti della nostra prima nascita, potessimo, seguendo le orme del nostro Salvatore, avvalerci del sicuro aiuto della [sua] seconda nascita; e, nati in Dio da Dio, spezzassimo i vincoli dell’antica morte, ricevendo lo Spirito Santo come pegno di salvezza. Dunque, volendo Dio apparire agli uomini, e desiderando insegnar loro anche di presenza le cose che prima aveva fatto sapere, rese accessibile, con l’assunzione dell’umanità, la sua forza divina. Si avvolse di tenebre come di velo quando si celò, come in una tenda, nella carne. In tale ineffabile mistero Cristo, nostro Dio, va ritenuto insieme uomo e Dio; per mezzo della Madre uomo, per via del Padre, Dio. Così sono vere ambedue queste affermazioni: Il Padre è maggiore di me e: Io e il Padre siamo una cosa sola. Infatti per la divinità è uguale al Padre, per l’incarnazione è soggetto al Padre. 3. Alcuni vanno indagando come può avvenire questa unione dell’uomo con Dio. Cercano la spiegazione di questo misterioso evento che una volta si è verificato; ma essi stessi non saprebbero dare spiegazione di una cosa che avviene sempre, cioè dell’unione dell’anima al corpo, in virtù della quale è fatto l’uomo. Dunque come una cosa incorporea può essere congiunta a una corporea (il che avviene) perché si faccia l’uomo, così l’uomo fu congiunto a Dio e ci fu Cristo. E tuttavia perché ci fosse Cristo quelle due realtà incorporee, cioè l’anima e Dio, poterono congiungersi e aderire più facilmente di quanto non possano aderire una realtà corporea e una incorporea come l’anima e il corpo umano, unione necessaria all’esistenza dell’uomo. E se Dio, creatore del cielo e della terra, pur essendo Dio si è fatto uomo e si è umiliato fino alla morte e alla morte di croce, davvero non deve andare in superbia chi è terra e cenere! Vedete, fratelli, quanto si sia umiliato Dio per gli uomini. Se anche il Signore è sceso a tanta umiltà, quanto più deve abbassarsi il servo! Una tale umiltà, carissimi, se fosse completamente posseduta dagli uomini, gioverebbe anche alla carità. Infatti se uno stima l’altro, se lo ritiene superiore a sé, l’amore fa uguaglianza. Per cui l’uomo non disprezzi se stesso, poiché per lui Dio si è degnato comunque di subire tali cose. 4. Anche io, fratelli, per i quali desidero spendermi totalmente, anche se nel mio intimo vi ho sempre stimato assai, tuttavia questo fatto vi rende in un certo modo più grandi, quando penso [cioè] quanta sia la degnazione del mio Signore per l’uomo. Voi siete a buon conto il prezzo dell’incarnazione del Signore, del sangue del Signore. Voi, membra di Cristo, voi avete per capo Cristo. Egli non esitò a nascere, non esitò a patire ogni cosa, sopportò anche la croce per stringervi in una famiglia con lui. Voi siete chiamati fratelli di Cristo, eredi di Cristo. Perciò, miei amatissimi, ognuno di fronte a se stesso consideri inammissibile il peccare e, se ha pensato a qualche malvagità, arrossisca. Infatti siete stati comprati a caro prezzo; glorificate dunque Dio e portatelo nel vostro corpo. Egli è nato per voi, egli si è offerto per voi; per di più, se vi comportate bene, egli abita in voi. Orsù, meditiamo la legge del Signore giorno e notte, per meritare di comprenderlo, di vederlo. Dal momento che Dio si è degnato di abbassarsi per gli uomini, facciamo in modo che l’uomo possa ascendere a Dio. Agostino, Discorso 371, sulla Natività.
Il Verbo assume un corpo per salvare il corpo
Il Verbo stesso di Dio, colui che è prima del tempo, l’invisibile, l’incomprensibile, colui che è al di fuori della materia, il Principio che ha origine dal Principio, la Luce che nasce dalla Luce, la fonte della vita e della immortalità, l’espressione dell’archetipo divino, il sigillo che non conosce mutamenti, l’immagine invariata e autentica di Dio, colui che è termine del Padre e sua Parola, viene in aiuto alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell’uomo. Assume un corpo per salvare il corpo e per amore della mia anima accetta di unirsi ad un’anima dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile. Ecco perché è divenuto uomo in tutto
come noi, tranne che nel peccato. Fu concepito dalla Vergine, già santificata dallo Spirito Santo nell’anima e nel corpo per l’onore del suo Figlio e la gloria della verginità. Dio, in un certo senso, assumendo l’umanità, la completò quando riunì nella sua persona due realtà distanti fra loro, cioè la natura umana e la natura divina. Questa conferì la divinità e quella la ricevette. Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza. Oh sovrabbondante ricchezza della divina bontà! Ma che cosa significa per noi questo grande mistero? Ecco: io ho ricevuto l’immagine di Dio, ma non l’ho saputa conservare intatta. Allora egli assume la mia condizione umana per salvare me, fatto a sua immagine e per dare a me, mortale, la sua immortalità. Era certo conveniente che la natura umana fosse santificata mediante la natura umana assunta da Dio. Così egli con la sua forza vinse la potenza demoniaca, ci ridonò la libertà e ci ricondusse alla casa paterna per la mediazione del Figlio suo. Gregorio Nazianzeno, Discorso 45, 9. 22. 28