IL VANGELO della 27a Settimana B

Hieronymus Bosch, «Giardino dell’eden», 1480-1490, polittico, olio su tavola, a fronte: pannello sinistro,  220×389, Madrid, Museo del Prado.

L’arte

Il Giardino delle delizie, Il Giardino dell’Eden (o Il Millennio) è un famoso trittico realizzato ad olio su  tavola da Hieronymus Bosch, ed è ritenuto il suo capolavoro, nonché l’opera più ambiziosa. In nessun’altra opera, infatti, il Pittore raggiunse una tale complessità simbolica, insieme alla vivida immaginazione espositiva.  Tutta l’intavolatura schematica proviene però da una lunga tradizione d’arte miniata. Sono state attribuite diverse titolazioni: «Il Giardino dell’Eden» , cioè un ambiente in perfetto equilibrio e armonia, o «Il Giardino  delle delizie», cioè una sorta di paradiso ingannato dai sensi; anche: «L’Inferno musicale», ovvero un luogo  impietoso da cui sembra impossibile uscire. La raffigurazione biblica, che a noi pare evidente, sulle tracce della teologia simbolica medievale descrive la storia  dell’umanità. Il trittico è formato da un pannello centrale quadrato al quale sono accostate due portelle  rettangolari: una volta ripiegate, mostrano la Terra durante la Creazione: Dio padre, seduto con una Bibbia sulle  ginocchia, osserva quanto ha creato con sguardo preoccupato e pensieroso. Nel pannello di sinistra il Creatore presenta la donna, Eva, ad Adamo depresso e solitario; la vasta veduta  fantastica presenta le figure nude, insieme ad animali reali e immaginari, frutti e rocce. I colori sono brillanti e smaltati, accordati sulle tonalità dei verdi e degli ocra, sulle quali spiccano per contrasto il candore dei corpi, il  rosa del manto di Dio e della stravagante costruzione al centro, il blu del laghetto e del cielo. La poetessa rumena  Rose Ausländer (1901-1988) scrisse: «Dio diede loro il suo giardino di vita sempreverde, animali frutti in  abbondanza, la soleggiata eternità». Alcuni commentatori ritengono che Adamo già guardi al futuro (raffigurato nei pannelli di destra). Per altri si  tratta dell’innocenza umana prima della caduta, che non conosceva un confine certo tra bene e male e nella  propria innocenza ignorava le conseguenze dei propri peccati. Il Creatore presenta Eva ad Adamo: il loro primo incontro avviene in un contesto naturale sereno, pacificato: una  rigogliosa vegetazione dai colori vivaci e brillanti. Dio appare più giovane rispetto al pannello esterno: ha occhi blu e riccioli dorati, sul modello dell’iconografia  medievale. Rivolto a noi, il Padreterno si volge benedicente, quasi augurando fecondità e lunga discendenza. È  l’affermazione della circolarità della vita riletta per via della stessa origine e la medesima dignità. Il Creatore  conferma la bontà della creatura e, benedicente, volge lo sguardo a noi che assistiamo, testimoni di cotanto  splendore. Wilhelm Fränger così commenta l’istante della consegna della donna: «la prende per mano «…come se  godesse della pulsazione del sangue vitale, e come se stesse ponendo un sigillo sull’eterna e immutabile  comunione tra quel sangue umano e se stesso. Questo contatto fisico tra il Creatore e Eva è ripetuto ancor più  chiaramente nella maniera con cui i piedi di Adamo toccano quelli di Dio. Qui si sottolinea il rapporto tra i due:  Adamo sembra infatti intento a tirare il corpo in tutta la sua lunghezza per poter toccare il Creatore. E il  rigonfiamento del mantello attorno al cuore del Creatore, dal quale cade la veste in pieghe e profili segnati fino ai  piedi di Adamo, sembra indicare che da lì fluisce potere divino, così che questo gruppo di tre formi un circuito  chiuso, un complesso di energia magica.» Eva fugge castamente lo sguardo di Adamo, anche se altre letture la  ritengono mostrare in maniera seducente il proprio corpo allo stesso. L’espressione di Adamo è di stupore e  meraviglia, e secondo Fränger è causata da tre elementi: in primo luogo la solenne presenza al suo fianco di Dio,  poi il rendersi conto che Eva è stata creata da una parte del suo corpo e ha la sua stessa natura; il terzo fattore è  l’eccitamento sessuale, il bisogno di riprodursi sentito per la prima volta. Molti dettagli delle immagini sembrano  lontani dall’innocenza che ci si dovrebbe aspettare nel giardino dell’Eden prima del peccato originale.  Altri storici dell’arte considerano lo sguardo di Adamo sulla moglie lussurioso e lascivo: tradisce non soltanto  sorpresa, ma pure attesa e desiderio. La teologia medievale afferma che, prima della caduta, Adamo ed Eva ebbero  rapporti puri e senza peccato; alcuni teologi del passato ritenevano infatti che il primo peccato – narrato  nell’immagine del desiderio del frutto proibito – fu proprio un desiderio carnale. Dietro Eva e in primo piano giocano nell’erba numerosi animali, tra cui dei conigli, simbolo di fertilità, e  una dracaena, che si pensa rappresenti la vita eterna. Qui, da una fossa circolare, si liberano uccelli e animali alati  finemente rappresentati nei particolari, alcuni realmente esistenti e altri frutto di fantasia. Un pesce con mani  umane e becco di anatra stringe un libro emergendo dalle acque torbide, mentre attorno a lui altri animali dai  colori oscuri si mimetizzano nel profondo della pozza. Fuori dall’acqua alcuni rapaci si cibano di rane;  un uccello ha tre teste e sono presenti altri volatili variopinti e un felino, che stringe in bocca una preda. Accanto ad Adamo si trova un curioso albero esotico, con una pianta rampicante dai frutti rossi che lo cinge.  Oltre la collina del primo piano un declivio porta a un bosco di alberi carichi di frutta, sottodimensionati, oltre i  quali uno specchio d’acqua soprastante divide la scena. Al centro del lago una complessa costruzione rosa, viene  identificata da alcuni critici come la “Fontana della vita”, ed è composta da motivi floreali ed elementi in vetro,  fittamente incastonata di gemme preziose. Su di essa si posano uccelli di diverse specie, presenti in gran numero  anche nella parte sinistra del lago. L’edificio raffigurato assolve pure ad uno scopo compositivo: riprende il colore  della veste di Dio e indirizza, come un dardo orientato, lo sguardo dello spettatore verso il fulcro della scena. A questa altezza, sulla roccia spoglia (a destra), seppur popolata da curiosi animali, un serpente è aggrovigliato ad  un albero, come chiaro rimando alla tentazione di Eva. Un ratto si arrampica sulla roccia vicina, considerato,  come il serpente, un simbolo sessuale. Sulle sponde del lago verso sinistra si abbeverano poi alcuni animali, reali o  mitologici, come un unicorno, simbolo medievale della purezza, della santità, di Cristo stesso. Più in alto si  stende un vasto paesaggio popolato da numerosi animali esotici: una giraffa, un elefante e un leone in procinto di  divorare una preda appena uccisa. Lo sfondo è costellato di forme rocciose da cui scaturiscono complesse forme  di vegetazione, ricordano edifici e capanne e spesso sono abitate da animali dal significato simbolico. Belting ha  osservato che se le creature in primo piano sono assolutamente immaginarie, quelle sullo sfondo e al centro del  pannello sono prevalentemente reali, estratte e ispirate dalla letteratura contemporanea su viaggi e scoperte; qui  Bosch si appella quindi alle conoscenze degli eruditi, umanisti o aristocratici. Più in lontananza sopra una curiosa  concrezione rocciosa, attraverso la quale serpeggia uno stormo di uccelli in volo. Più lontano ancora, in toni  azzurrini per effetto del pulviscolo atmosferico, si vedono altri speroni rocciosi, punteggiati da sinistre specie  vegetali, che disegnano un misterioso tracciato. Da molti storici ritengono che la scena del pannello di sinistra  «decisamente non convenzionale» non si identifichi in nessuno dei racconti artistici della Genesi raffigurati fino  ad allora nell’arte occidentale».

Intro

Nel contesto della manifestazione del Figlio dell’uomo e dopo il secondo annuncio della passione, Marco espone  – come complemento catechetico – l’insegnamento sulla indissolubilità del matrimonio, e i comportamenti  richiesti per fare parte del regno di Dio. Gesù cambia scena (Mc 10,1): va in Giudea. Espone con autorità  messianica – non a un gruppo ma al popolo – l’indissolubilità del matrimonio come un principio universale. San  Marco non entra nelle discussioni dei rabbini sulla legislazione del divorzio. Coglie con fedeltà le parole di Gesù,  senza tener conto della clausola eccezionale trasmessa da (Mt 19,9). Marco, rivolgendosi a comunità di gentili, e  andando al di là del mondo giudaico, ricorre alla Genesi (Gen 1,27 e 2,24): nell’unione indissolubile del  matrimonio brillano, folgoranti, l’immagine e la somiglianza poste da Dio nell’uomo e nella donna. Gesù spiega  e chiarisce la volontà del Creatore. L’atteggiamento di Gesù con i bambini fa trasparire la fiducia con la quale  bisogna ricevere Dio come Padre (Abbà), la protezione e la sicurezza della paternità divina. Alcune tradizioni  patristiche hanno scoperto nell’atteggiamento di Gesù con i bambini un’allusione implicita al battesimo dei  bambini.

Il vangelo

Mc 10,2-16
L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto


Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un  marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha  permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione  [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due  diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che  Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e  ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette  adulterio». Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo,  s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti  appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino,  non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro. 

Le parole

La Genesi riporta all’origine dell’umanità: Dio, dopo la creazione dell’uomo, vuole fargli un “aiuto che a lui  corrisponda”. Il racconto, simbolico e teologico, con queste prime parole, indica già il tipo di rapporto  “corrisposto”, perché complementare. 


L’amore umano partecipa nello stesso ordine naturale: ogni singolo non basta a sé stesso: nell’unione coniugale  si costituisce l’unità, armonia profonda e strutturale: “Osso delle mie ossa e carne della mia carne”. La sessualità  per progetto divino, è unitiva e feconda: è dono e cammino. 

“Ripudio”. Gesù risponde che questa legge ebraica è frutto della durezza del cuore umano, ma non corrisponde  al progetto di Dio creatore. Uomo e donna, maschio e femmina, nel matrimonio, diventano una sola “carne”,  cioè una sola vita, indivisibile, per cui ogni altra scelta è da considerare adulterio. “L’uomo non divida ciò che  Dio ha congiunto”, aggiunge il Salvatore: il matrimonio è opera di Dio che l’uomo non può distruggere.

Amore di Gesù per i bambini, ad essi “appartiene il regno di Dio”: da loro si deve imparare la spirito  veritiero con cui accogliere il regno di Dio; e la sua benedizione su di loro indica al mondo che essi sono sempre 

ricchezza e benedizione per l’umanità. Nel brano evangelico, la benedizione data ai bambini è un sì alla vita e al  futuro.

La teologia

Gn 2,18-24; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16 

1. «Ciò che Dio ha congiunto…». Il Vangelo chiarisce la questione circa il matrimonio, dove Gesù riconduce il  suo discorso, al di là di Mosè, all’originario ordine della creazione di Dio. Un ordine che non è una legge positiva  mutevole, ma una legge iscritta nella natura dell’uomo. Questa natura è a un tempo corporea e spirituale, l’una e  l’altra indivisibili. Nel corpo uomo e donna diventano «una carne», e poiché l’uomo «lascia il padre e la madre  per aderire alla sua donna», e la loro unione genera figli che devono essere educati, diventano entrambi «uno  spirito». Perciò l’unione, che risale all’azione di Dio, è definitiva e non solvibile da parte dell’uomo. L’episodio  della benedizione dei bambini aggiunta dal Vangelo è riferita a quanto detto: i bambini sono qui espressamente  esempio per chiunque accoglie il regno di Dio. Anche le persone sposate, se mantengono davanti a Dio un  atteggiamento “di piccolezza”, non possono comportarsi rispetto al marito o alla moglie con l’atteggiamento di  superiorità. Comportarsi a vicenda “bambini” davanti a Dio rende possibile una comprensione e benevolenza  reciproche, che superano le inevitabili tensioni dell’esistenza.  

2. «Deve essere il servo di tutti». Il Vangelo sembra confermare un’altra volta la concezione dei «malvagi»: il cristianesimo, una dottrina per bambini inermi e per quelli che lo vogliono diventare. Per gente debole. Ma l’insegnamento di Gesù rovescia le attese malvagie dei suoi avversari: egli sarà consegnato e ucciso, per risorgere al terzo giorno. Dunque non saranno loro, ma lui stesso a determinare il proprio destino… in superiore libertà, come l’azione del suo animo impavido e obbediente a Dio. E al posto dei malvagi appaiono, quale loro svelamento e caricatura, i discepoli, i quali, dopo aver percepito questo insegnamento, nella loro totale incapacità a comprendere, discutono chi di loro sia il più grande. Essere grande e potente va contro la mitezza e la pazienza osservate in Cristo. Allora Gesù, la cui predizione era stata espressa invano, prende il bambino nelle sue braccia, per dimostrare in lui, di cui tutti conoscono l’essenza, la verità che tutta la sua esistenza annuncia: il più grande, Dio, dimostra la sua grandezza nell’abbassarsi e porsi come servo di tutti, all’ultimo posto: il bambino, l’essere umano più debole – che essenzialmente deve chiedere di essere curato e accudito – è il reale simbolo di questo Dio: il Figlio si è abbassato, ma in lui anche il Padre, concorde con questo abbassamento. Dio nella sua missione di servo, accolta per libero amore a favore di tutti i malvagi e i posseduti dalla volontà di potenza, con questo abbassamento si dimostra   come colui che sta più alto di ogni cosa. Chi ha il coraggio di imitarlo?

3. «Non si vergogna di chiamarli fratelli». Gesù stesso, come riferito nella seconda lettura, non si sposerà, perché  «per la grazia di Dio egli provò la morte per tutti» cioè si è dato interamente a tutti. Il suo dono di sé in carne e  sangue sulla croce e poi sempre nell’eucaristia è, su un piano più elevato, un simbolo, anzi meglio, il modello  archetipo di ogni dedizione matrimoniale: anziché ad un “tu”, viene l’umanità nel suo insieme, a cui Gesù  «aderisce». Se l’umanità viene rappresentata anche per mezzo della Chiesa-sposa di Cristo, che qui però non viene  ricordata espressamente: si dice del tutto, universalmente, che Gesù santifica: i membri dell’umanità da lui  vengono santificati, essi che «provengono da una stessa origine», dal creatore, che è il Padre di Gesù; e che «non si  vergogna di chiamarli fratelli»: fratelli già naturalmente secondo l’origine, e fratelli ancora più profondamente in  conseguenza della sua dedizione sulla croce e nell’eucaristia, dove essi diventano «una carne». Chi ha fondato  quest’ordine di salvezza è «Dio», il Padre, «per il quale e dal quale sono tutte le cose, e che voleva portare molti  figli alla gloria».

Esegesi (B. Maggioni)

Al di là del linguaggio immaginoso, il racconto riportato nella prime pagine del libro della Genesi (2,18-24) vuol  significare che uomo e donna hanno la stessa origine, la stessa natura, e dunque la stessa dignità, e nel contempo  che l’uno è come incompiuto senza l’altra. Così si spiega l’attrazione e l’unione profonda che si stabilisce tra i  due: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne” (v.  24). Questa sottolineatura della comune origine e reciproca complementarietà è ribadita anche in altri modi.  Uomo e donna sono “parenti” come risulta dal gioco delle parole ebraiche “ish”-isha”, che in italiano si dovrebbe  poter tradurre “uomo-uoma”, e come appare dalla formula di parentela che Adamo usa per salutare gioiosamente  la sua donna: “Osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (v. 23). Dunque, uomo e donna hanno una comune  origine e una pari dignità. Ecco una prima affermazione rivoluzionaria nei confronti della mentalità del tempo,  che invece riteneva la donna inferiore all’uomo. Lo stesso Israele, come testimonia la sua legislazione, non fu  capace di coglierne la portata e la novità. E neppure furono sempre capaci – bisogna pur dirlo – gli stessi cristiani.  Ne deriva poi una seconda affermazione, dipendente appunto dalla prima, ma non meno ricca di novità e di  conseguenze: l’uomo e la donna si incontrano per uscire dalla solitudine. “Non è bene che l’uomo sia solo” (v.  18): l’uomo non si realizza nella solitudine. All’uomo non basta semplicemente esistere, né gli bastano il lavoro e  il dominio sugli animali. L’uomo ritrova va se stesso entrando in dialogo con uno a lui simile. Così Dio dona  all’uomo un “aiuto che gli corrisponda” (lett.: “che gli stia di fronte, v. 18): l’espressione indica che l’incontro fra  l’uomo e la donna va molto al di là della sfera puramente sessuale. È una comunione globale, di tutto il proprio  essere: “E i due saranno un’unica carne” (v. 24). “E la condusse all’uomo” (v. 22): è Dio stesso che conduce la  donna all’uomo; la reazione dell’uomo è di gioiosa sorpresa, scoprendo nella donna proprio quegli aspetti di  corrispondenza, di dialogo e di aiuto introvabili altrove eppure desiderati. La gioia e la sorpresa costituiscono  l’atmosfera dominante del racconto. La creazione della donna accanto all’uomo rientra nelle grandi meraviglie di  Dio. Al tempo di Gesù il divorzio era ammesso sulla base di un passo del Deuteronomio (cf. 24,1), sull’esatta  interpretazione del quale però le principali scuole teologiche divergevano. La scuola di Rabbi Shammai  interpretava la concessione in senso restrittivo e, in pratica, ammetteva il divorzio solo in caso di adulterio. La  scuola di Hillel, invece, interpretava la clausola in modo più largo e aggiungeva: “E per qualsiasi altra cosa che  possa dispiacere al marito”. Dunque, la teologia del tempo ammetteva il divorzio, discutendo però intorno alle sue condizioni. Qualcuno  pensa di provocare Gesù (cf. Mc 10,2-10). Quale sarà il suo parere? Come sempre egli imposta la questione a  modo suo: non si chiede come vada interpretato esattamente il passo di Mosè, bensì qual è l’intenzione  fondamentale e originaria di Dio che guida il piano di salvezza, alla quale bisogna ispirarsi al di là di ogni casistica  e ben oltre le diverse concretizzazioni che la tradizione ha nel tempo accumulato? Qui troviamo già un  insegnamento di metodo: non basta appellarsi alle tradizioni, bisogna valutarle in base al loro dinamismo  profondo, in base a quella intenzione iniziale che le ha generate e che esse a modo loro e per il loro tempo hanno  cercato di esprimere (ma spesso anche pagando il tributo alla debolezza degli uomini, alla loro poca fede e ai loro  peccati). È un principio che si deve applicare persino alle Scritture: tutto è parola di Dio, ma c’è testo e testo.Gesù non mette sullo stesso piano Genesi e Deuteronomio: il primo rivela l’intenzione profonda di Dio, il  secondo paga un tributo alla durezza di cuore degli uomini. Non tutto è ugualmente fondamentale, non tutto  ugualmente normativo: le Scritture devono essere scrutate. 
In merito alla questione che gli è stata posta, Gesù risponde che l’intenzione profonda a cui il matrimonio deve  rifarsi è l’alleanza, la solidarietà senza tentennamenti, come appunto già diceva il passo della Genesi: <(I due  saranno un’unica carne”. È esattamente quella medesima logica di solidarietà e di amore – rapportata al caso matrimoniale – che Gesù insegna continuamente ai suoi discepoli e che egli stesso sta vivendo percorrendo la via  della croce. Si tratta di imitare la fedeltà di Dio, una fedeltà definitiva e senza pentimenti, una solidarietà senza  compromessi. Unendosi alla sua donna, l’uomo deve portare tutto se stesso, giocandosi completamente e  definitivamente. Ecco perché e a quali condizioni il matrimonio diventa “sequela”, cioè luogo in cui l’amore del  Cristo, la sua fedeltà, il suo servizio – in una parola il cammino che egli ha percorso – tornano a trasparire. 

I Padri

1. E’ Dio l’autore dell’unione coniugale 

Non ripudiare quindi la tua sposa: significherebbe negare che Dio è l’autore della tua unione. Infatti se è tuo  compito sopportare e correggere i costumi degli estranei, a maggior ragione lo è nei riguardi di tua moglie.  Ascolta quanto dice il Signore: “Chi ripudia la sposa ne fa un’adultera” (Mt 5,32). Colei infatti che, finché vive il  marito, non può sposarsi di nuovo, può essere soggetta alla lusinga del peccato. Cosí colui che è responsabile  dell’errore lo è anche della colpa, quando la madre è ripudiata con i suoi bambini, quando, già anziana e col passo  ormai stanco, è messa alla porta. Ed è male scacciare la madre e trattenere i suoi figli: perché si aggiunge,  all’oltraggio fatto al suo amore, la ferita nei suoi affetti materni. Ma piú crudele è scacciare anche i figli per causa  della madre, in quanto i figli dovrebbero piuttosto riscattare agli occhi del padre il torto della madre. Quale  rischio esporre all’errore la debole età di un adolescente! E quale durezza di cuore scacciare la vecchiaia, dopo aver  deflorato la giovinezza! Sarebbe lo stesso se l’imperatore scacciasse un soldato veterano senza compensarlo per i  suoi servigi, togliendogli gli onori e il comando che ha; o che un agricoltore scacciasse dal suo campo il contadino  spossato dalla fatica! Ciò che è vietato fare nei confronti dei sudditi, sarebbe dunque permesso nei riguardi dei  congiunti? Tu invece ripudi la tua sposa quasi fosse nel tuo pieno diritto, senza temere di commettere  un’ingiustizia; tu credi che ciò ti sia permesso perché la legge umana non lo vieta. Ma lo vieta la legge di Dio: e se  obbedisci agli uomini, devi temere Dio. Ascolta la legge del Signore cui obbediscono anche quelli che fanno le  leggi: “Ciò che Dio ha unito, l’uomo non divida” (Mt 19,6). Ma non è soltanto un precetto del cielo che tu  violi: tu in certo modo distruggi un’opera di Dio. Supponi che la sposa che hai ripudiata non torni a sposarsi:  ebbene, ti era sgradita, quando eri suo marito, questa donna che si mantiene fedele a te, ora che sei adultero?  Supponi invece che torni a sposarsi: la sua necessità è un tuo crimine, e ciò che tu credi un matrimonio in realtà è  un adulterio. Non è senza importanza che tu commetta adulterio pubblicamente, oppure che tu lo commetta  sembrando marito: la colpa commessa per principio è piú grave di quella commessa furtivamente.  Forse qualcuno potrà dire: “Ma allora perché Mosè ha comandato di dare il permesso di divorzio e di allontanare la moglie?” (Mt 19,7; Dt 24,1). Chi parla in questo modo è giudeo, non è cristiano: egli obietta ciò che fu obiettato al Signore, e perciò lasciamo al Signore il compito di rispondergli: “Per la durezza del vostro cuore” – dice – “Mosè vi permise di dare il libello del divorzio e di ripudiare le mogli; ma all’inizio non era così” (Mt  19,8). Cioè egli dice che Mosè lo ha permesso, ma Dio non lo ha ordinato: all’inizio valeva la legge di Dio. Qual  è la legge di Dio? “L’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua sposa, e saranno due in una carne sola”  (Gen 2,24; Mt 19,5). Dunque chi ripudia la sposa, dilania la sua carne, divide il suo corpo.  (Ambrogio, Exp. in Luc., 8, 4-7) 

2. Due in una sola carne

Due sono dunque i figli di Abraham, “uno dalla schiava e uno dalla libera” (Gal 4,22), Per questo colui che nasce dalla schiava, non diventa ugualmente erede con il figlio della libera, tuttavia riceve doni e non viene rimandato a mani vuote; anch`egli riceve una benedizione, ma il “figlio della libera” riceve la promessa (cf. Gal 4,23.30); anch`egli diventa “una nazione numerosa” (Gen 21,13; Gen 12,2), ma costui il popolo dell`adozione (cf. Gal 4,31; 1Pt 2,9-10).

Spiritualmente, dunque, tutti quelli che mediante la fede giungono alla conoscenza di Dio, possono essere detti figli di Abraham; ma fra questi ve ne sono alcuni che aderiscono a Dio per amore, altri per la paura e il timore del giudizio futuro. Per cui anche l`apostolo Giovanni dice: “Chi teme non è perfetto nell`amore; l`amore perfetto scaccia il timore” (1Gv 4,18). Questi dunque, che è “perfetto nell`amore”, nasce da Abraham, ed è “figlio della libera”. Chi invece custodisce i comandamenti non per amore perfetto, ma per paura della pena futura e per timore dei supplizi, certo è anch`egli figlio di Abraham, anch`egli riceve doni, cioè la ricompensa della sua opera (poiché anche chi avrà dato soltanto un bicchiere di acqua fresca per riguardo al nome di discepolo, la sua ricompensa non verrà meno [Mt 10,42]), tuttavia è inferiore a colui che è perfetto non nel timore servile, ma nella libertà dell`amore.

(Origene, Omelie sulla Genesi, 7, 4)

3. Il regno dei cieli è di coloro che somigliano ai bambini 

“Allora gli furono condotti dei fanciulli perché imponesse loro le mani e pregasse per essi. I discepoli li  sgridarono, ma Gesú disse loro: «Lasciate che i fanciulli vengano a me, poiché di quelli che sono come loro è il  regno dei cieli «; e dopo aver imposto loro le mani, proseguí il suo cammino” (Mt 19,13-15). Per qual motivo i  discepoli allontanano da Gesú i fanciulli? A causa della sua dignità. Che fa allora il Maestro? Per insegnar loro a  essere umili e a calpestare il fasto e la gloria mondana, non solo accoglie i fanciulli, ma li abbraccia e promette il  regno dei cieli a quelli che sono come loro: affermazione questa che già ha fatto precedentemente. Anche noi,  dunque, se vogliamo ereditare il regno dei cieli, cerchiamo con grande impegno di acquistare questa virtù: il  termine, infatti, la meta della filosofia è appunto la semplicità unita alla prudenza. Questa è vita angelica.  L’anima del bambino, infatti, è pura da ogni passione: non serba rancore per quelli che l’offendono, ma si accosta  a loro come ad amici, come se nulla fosse accaduto. E per quanto la madre lo picchi, il bambino sempre la ricerca  e la preferisce a tutti. E quand’anche tu gli presentassi una regina con il suo diadema, egli non la preferirebbe a  sua madre, anche se la madre fosse vestita di stracci: guarderebbe infatti con maggior piacere a lei, ricoperta di  quei poveri abiti, che non alla regina con tutti i suoi ornamenti: ché il bambino sa distinguere i suoi dagli  estranei, non per la loro ricchezza o per la loro povertà, ma per l’amore che essi hanno per lui e che lui sente per  loro. Non ricerca niente piú del necessario, ma quando il seno della madre l’ha saziato allora si stacca da esso. Il  fanciullo non si dà pena, come facciamo noi, per futili motivi, come ad esempio per la perdita di denaro e per  cose simili; né si rallegra come noi per cose passeggere: non si estasia, infatti, davanti alla bellezza dei corpi. Perciò  Gesú ha detto: «Di quelli che sono come loro è il regno dei cieli», affinché noi facciamo per libera volontà ciò che  i fanciulli fanno per natura. Siccome i farisei non avevano altro movente alle loro azioni se non la malvagità e  l’orgoglio, per questo il Signore ripete ai suoi discepoli in ogni occasione il comando di essere semplici, e mentre  allude ai farisei istruisce i discepoli. Niente infatti come il comando e la preminenza spinge gli uomini  all’arroganza. Orbene, siccome i discepoli avrebbero goduto di grande onore per tutta la terra, il Signore previene  il loro spirito e non permette che essi abbiano qualche sentimento umano, che ricerchino gli onori della  moltitudine o si offrano a spettacolo davanti alle folle. Benché queste cose sembrino insignificanti, tuttavia esse  sono causa di grandi mali. Cosí i farisei, per aver desiderato i saluti, l’autorità e i primi posti, hanno raggiunto il  culmine della malvagità; di qui sono passati a concepire la piú furiosa passione per la gloria e sono precipitati  infine nell’empietà. Ecco perché si allontanano da Gesú, dopo aver attirato su di sé la sua maledizione per averlo  tentato; i fanciulli, invece, ottengono la sua benedizione, essendo liberi da tutte queste passioni.  Diventiamo anche noi come i fanciulli e siamo come loro privi di malizia. Non vi è infatti altro modo di vedere il  cielo. (Giovanni Crisostomo, Ivi, 62, 4)

4. La nostra gioia è per ora in speranza 

Benediciamo il Signore Dio nostro, che ci ha qui riuniti a letizia spirituale. Conserviamo il cuore sempre  nell’umiltà, e riponiamo nel Signore la nostra gioia. Non riempiamoci d’orgoglio per una qualsiasi ricchezza  terrena: piuttosto rendiamoci conto che la nostra felicità avrà inizio solo quando tutte queste cose saranno  passate. La nostra gioia per ora sia vissuta nella speranza: nessuno goda delle cose presenti, se non vuole arrestarsi per via. Tutta la gioia sia nella speranza del futuro, tutto il nostro desiderio, nella vita eterna. Tutti i sospiri siano  volti a Cristo; lui solo sia desiderato, il piú bello fra tutti, che amò noi, difformi per farci belli. Corriamo a lui  solo, per lui il nostro gemito: “e dicano sempre: sia esaltato il Signore, quelli che amano la pace del suo servo”  (Sal 34,27).  (Agostino, Commento al vangelo di Giovanni 10, 13)

5. Rispondere con amore all’amore 

Con prudenza formiamo e conserviamo l’unione coniugale, e amiamo la parentela a noi concessa. Se coloro che  sono stati separati in lontane regioni sin dal tempo della loro nascita ritornano insieme, se il marito parte per  l’estero, né la lontananza né l’assenza possano mai diminuire l’amore reciproco. Unica è la legge che stringe i  presenti e gli assenti; identico è il vincolo di natura che stringe, nell’amore coniugale, sia i vicini, sia i lontani  unico è il giogo benedetto che unisce i due colli, anche se uno deve allontanarsi assai in regioni remote: hanno  infatti accolto il giogo della grazia non sulle spalle di questo corpo, ma sull’anima.  

(Ambrogio, Exameron, 5, 18)