IL VANGELO della 26a Settimana B

Antiochia, Il “Nazar”, antico mosaico pavimentale da villa romana, detta “Casa del malocchio”, Hatay Museo archeologico, Antakya, Inv. n. 1024.

L’arte

L’amuleto a forma di occhio stilizzato, il Nazar, comunemente chiamato “occhio di Allah” o meno frequentemente “occhio di Medusa”, deriva da una parola araba che significa “vista, sorveglianza, attenzione” e altri concetti simili, e si riteneva offrire protezione dal malocchio. Questo simbolo comunemente inteso come il “malocchio”, è raffigurato nel mosaico d’ingresso di una villa, mentre viene attaccato da una moltitudine di attrezzi e simboli ritenuti apotropaici nel mondo orientale come in quello greco-romano: viene trafitto da un tridente e da una spada, poi beccato da un corvo e abbaiato da un cane. Viene anche attaccato da un millepiedi, uno scorpione, un gatto e un serpente. Anche un nano cornuto, con un enorme attributo sta per attaccare il malocchio: è uno spiritello maligno (kakodaimon), e tiene in mano vari spiedi, ha le corna (o sopracciglia alate) e altri simboli. Tale forma di superstizione,  è comune a molte culture presenti e passate. L’iscrizione greca kai-su significa “e anche tu”… forse a suggerire l’invito al “calpestamento”, come gesto rituale in cui il malocchio viene disprezzato e sconfitto. Tale gesto all’ingresso della casa indica un’azione propiziatoria in cui ogni influsso maligno viene “lasciato fuori”. I sintomi del malocchio sono comunemente intesi in un senso di malessere fisico e mentale, accompagnato da stanchezza e molto spesso mal di testa; la persona si sente agitata, fa fatica ad addormentarsi e riposa male. La causa principale del malocchio sta nell’invidia, nella rabbia e nella gelosia. Si pensa che una persona gelosa trasmetta un’energia negativa anche solo con lo sguardo (appunto l’”occhio malvagio”). Il Cristianesimo ha ereditato il malocchio dal giudaismo e da altre religioni, spesso associate al falso profeta o Satana.  Nella cultura cristiana e nella tradizione, il malocchio è anche chiamato “occhio invidioso”, perché la persona che lo lancia è gelosa di qualcosa o qualcuno, e ha a che fare con il peccato di avidità. In Marco e Matteo Gesù elenca alcuni peccati che provengono dal cuore umano, uno di questi si riferisce in qualche modo al “malocchio”, ma con la Parola di Dio il credente può vincere il male. Matteo (6,23) parla della malattia dell’occhio malvagio: «La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebre, quanto grandi saranno le tenebre (Mt 6,23). Marco 7,22[16] include “il malocchio” come uno dei peccati che iniziano nel cuore; in greco antico: ὀφθαλμὸς πονηρός, ophthalmòs ponērós (“malocchio”); questo non è un riferimento a qualcosa di superstizioso. Quello di cui Gesù sta parlando è una persona che sta cercando di essere coinvolta nel male, (nel gergo corrente oggi dice che una persona “cerca guai”). Nella Bibbia l’espressione è sinonimo di invidia, gelosia e alcune forme di cupidigia  (Deuteronomio 15,9.28,54,Proverbi 23,6.28,22, Matteo 20,15, Matteo 6,23, Luca 11,34, Marco 7,22). Il malocchio sembra riferirsi all’avarizia, all’ avidità o all’ invidia, riferito all’uomo o alla sua azione. In Deuteronomio 15,9, “il tuo occhio è malvagio contro…” Potrebbe anche essere tradotto con: “Sei egoista verso… “, oppure indica il comportamento egoista (Deuteronomio 28,54.56). I contesti indicano coloro che si sono rifiutati di condividere con i poveri. Questo tema si inserisce anche nel contesto di Proverbi 28,22[28], che descrive qualcuno che “ha fretta di ricchezze”. L’egoismo o l’invidia si trovano frequentemente in Matteo 20,15 (correlati alle situazioni descritte in Matteo 6,22-23 e Luca 11,34).  Nel mondo pagano ed ebraico la difesa contro gli effetti del malocchio includeva l’uso di incantesimi (secondo alcuni gli ornamenti dei cammelli di Giudici 8,21[mezzelune]), la ripetizione di giuramenti, e anche gesti osceni. Una persona veniva sospettata d’intenzioni malvagie nel suo osservare attentamente bambini o animali da fattoria. Si credeva che gli effetti del malocchio fossero radicati nell’invidia o in tale sguardo fisso, e con l’esclamazione: “Dio li benedica” o un suo equivalente, si celavano le vere intenzioni.  In Matteo 20,15 il malocchio (gelosia e avarizia) fa precipitare nelle tenebre: il verso pone enfasi sulla profonda oscurità di un occhio spirituale misero, concentrato sulla ricchezza o sui beni materiali, e dunque accecato nel giudizio. Alcuni ritengono che chi è così “accecato” non possa nemmeno rendersi conto di essere nell’oscurità.  Altri commentano l’insegnamento di Gesù sull’ “astigmatismo spirituale” (non riuscire a far convergere la visione in un punto focale), ed esorta i discepoli ad avere un occhio “unico” per “vedere realmente, superando la follia di accumulare tesori sulla terra e mantenendo  lo sguardo limpido sul prossimo, nella giusta “messa a fuoco”.

Intro

Gesù cammina verso Gerusalemme, ed è un susseguirsi di insegnamenti e raccomandazioni; Gesù è un vero catechista, e forma la fede, ancora solo incipiente, dei discepoli. 
Uno di loro si rivolge al Maestro: “Abbiamo visto uno che scacciava i demoni… ma non era dei nostri” . È un’ulteriore prova del rigido schematismo dentro cui, loro come noi, vorremmo imprigionare la libertà dello Spirito, che soffia sempre dove e come vuole. 
Non i padroni della salvezza: essa è un puro dono di Cristo. Pur avendo responsabilità e modalità diverse in seno alla Chiesa, i cristiani hanno soltanto il compito di far incontrare la persona di Cristo. 
La gratuità del dono di Cristo ci obbliga a valorizzare tutto ciò che, nel mondo, fa presagire e manifesta la sua presenza redentrice, perché Cristo, unico ad avere una risposta esauriente all’inquietudine presente nel cuore dell’uomo, può inviare lo Spirito Santo a illuminare il cuore di ogni persona. 
Con Mosé anche noi dovremmo esclamare: “Fossero tutti profeti nel popolo di Dio e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”. 

Il vangelo

Mc 9,38-43.45.47-48
Chi non è contro di noi è per noi. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala


Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Le parole

Chi è il discepolo? Poco prima di questo episodio, Gesù ne aveva tracciato il profilo: uno che si fa ultimo e servo di tutti, che accoglie i piccoli perché tale si sente fra le braccia di Dio. Ora, in questa pagina, Gesù spiega meglio: il discepolo è colui che vive ogni cosa “nel nome di Gesù”: ciò che conta è la sua persona, lui è l’unico Maestro, e noi tutti siamo solo e sempre discepoli. La Chiesa delle origini scoprì, in questa consapevolezza, la ragione del proprio esistere e la gioia della propria libertà, perché legata solo al Signore e la sua vocazione “cattolica”, ossia universale, perché tutti gli uomini son riconosciuti fratelli in quanto figli dell’unico Signore.

Essere aperti e accoglienti è proprio del cristiano e della Chiesa; è molto più che una semplice tolleranza; è la radice della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli uomini, intesa come fraternità universale. Solo Gesù va seguito. E lui ha fatto una sola strada, quella del servizio e del dono della propria vita. Sarà Lui, dunque, a riconoscere e a stabilire chi è “dentro” e chi è “fuori”. A noi soltanto la possibilità – per grazia – di amare. Solo a Dio il giudizio; anche perché, prima del momento ultimo e definitivo della morte, c’è sempre la possibilità di sbagliare, di scambiare il grano per zizzania e viceversa.

Se il discepolo di Gesù è libero verso tutti, allora è anche libero da tutto, pronto a rinunciare a tutto ciò che può essere d’inciampo nel cammino spedito della sequela Christi. Occhi, mani e piedi sono i simboli delle cose che l’uomo desidera, prende e verso cui si indirizza. Gesù non vuole mutilazioni e castrazioni, ma la piena libertà di chi pospone ogni cosa al Suo nome. Per esempio: quale mano dovremmo “amputare”? Quella che sa solo prendere e mai condividere, donare. Quale occhio “cavare”? Quello che vede solo la propria immagine, ravvisa solo la propria idea e non scorge mai il volto dell’altro per riconoscerlo fratello. Quale piede “tagliare”? Quello che fa degli altri dei sgabelli per salire, quello che non percorre le strade della misericordia e della prossimità.

L’altra faccia della sequela è la testimonianza. Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi scrisse: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri… o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni… È dunque mediante la sua condotta, mediante la sua vita, che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità”. La sequela di Cristo produce miracoli: segni capaci di cambiare il senso e la direzione delle cose. Anche di un bicchiere d’acqua, quando è donato. Altrove si inciampa soltanto e si finisce trascinati a fondo come se una macina ci fosse legata al collo.

La teologia

Sap 2,12.17-20; Gc 3,16 – 4, 3; Mc 9, 30-37

1. «Proviamo ciò che gli accadrà alla fine». Non si può fare a meno di applicare questo testo della prima lettura al «Figlio di Dio» in assoluto, a Cristo. Ogni versetto coglie il comportamento suo e dei suoi nemici. Egli li ha di fatto accusati di tradimento della legge e della tradizione; ed essi hanno deciso la sua morte, una morte «aspra e crudele». Le ingiurie sotto la croce sono quelle dei malvagi qui descritti: se egli è veramente Figlio di Dio, Dio si prenderà cura di lui, vogliamo vedere se Dio gli procura l’aiuto su cui presumibilmente conta. La croce di Cristo sarebbe, così considerata, la dimostrazione che i suoi avversari e uccisori avevano ragione: essi infatti volevano che Gesù fosse, «messo alla prova nella sua mitezza e pazienza», privo di ogni difesa.

2. «Deve essere il servo di tutti». Il Vangelo sembra confermare un’altra volta la concezione dei «malvagi»: il cristianesimo, una dottrina per bambini inermi e per quelli che lo vogliono diventare. Per gente debole. Ma l’insegnamento di Gesù rovescia le attese malvagie dei suoi avversari: egli sarà consegnato e ucciso, per risorgere al terzo giorno. Dunque non saranno loro, ma lui stesso a determinare il proprio destino… in superiore libertà, come l’azione del suo animo impavido e obbediente a Dio. E al posto dei malvagi appaiono, quale loro svelamento e caricatura, i discepoli, i quali, dopo aver percepito questo insegnamento, nella loro totale incapacità a comprendere, discutono chi di loro sia il più grande. Essere grande e potente va contro la mitezza e la pazienza osservate in Cristo. Allora Gesù, la cui predizione era stata espressa invano, prende il bambino nelle sue braccia, per dimostrare in lui, di cui tutti conoscono l’essenza, la verità che tutta la sua esistenza annuncia: il più grande, Dio, dimostra la sua grandezza nell’abbassarsi e porsi come servo di tutti, all’ultimo posto: il bambino, l’essere umano più debole – che essenzialmente deve chiedere di essere curato e accudito – è il reale simbolo di questo Dio: il Figlio si è abbassato, ma in lui anche il Padre, concorde con questo abbassamento. Dio nella sua missione di servo, accolta per libero amore a favore di tutti i malvagi e i posseduti dalla volontà di potenza, con questo abbassamento si dimostra   come colui che sta più alto di ogni cosa. Chi ha il coraggio di imitarlo?

3. «Non potete ottenere nulla». L’amara seconda lettura, scopre senza riguardi l’interiore peccaminoso dell’uomo di fronte a Dio, e ora trae le conseguenze. Le mire dell’uomo al potere e alla grandezza, che non si attuano senza guerre e contese per la superiorità, non conducono a niente, perché l’«ambizioso», l’«invidioso» è in se stesso contraddittorio. Egli tende verso cose che contraddicono la sua natura, nel «disordine» che insorge contro la «sapienza dall’alto». E per questo nella sua preghiera si affanna ma non ottiene nulla. In quanto brama di “essere grande”, di fatto non può «ricevere nulla», perché per ricevere dovrebbe essere come il bambino: «pacifico, mite, obbediente». Solo l’insegnamento di Gesù scioglie nel cuore dell’uomo l’interna contraddizione, in cui questi s’è impigliato e da cui non può liberarsi.

Esegesi

L’episodio riportato nella prima lettura (cf. Nm 11, 25-29) si colloca durante il cammino nel deserto. La fatica del viaggio, la scarsità di cibo e di acqua suscitano nel popolo la nostalgia dell’Egitto. Anche Mosè si lamenta presso il Signore: “Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo?” (Nm 11,11). Al duplice lamento, del popolo e di Mosè, Dio risponde con il miracolo delle quaglie e col dono del suo Spirito a settanta anziani scelti da Mosè, incaricati di aiutarlo nel suo difficile compito. Mosè, racconta il brano, raduna fuori dall’accampamento, attorno alla tenda del convegno, settanta anziani del popolo sui quali il Signore fa scendere il suo Spirito. Ed ecco il dato sorprendente sul quale l’autore del racconto attira l’attenzione: lo Spirito scende anche su Eldad e Medad, due anziani che non fanno parte del gruppo: non sono stati scelti da Mosè, non sono usciti dall’accampamento e non si sono radunati attorno alla tenda del convegno, e tuttavia anch’essi profetizzano come gli altri. Il giovane Giosuè ne resta stupito e scandalizzato; il fatto gli sembra una diminuzione dell’autorità di Mosè, un attentato alla sua funzione di mediatore fra Dio e il popolo. E corre da Mosè: “Mio signore, impediscili!” (v. 28). E Mosè: “(Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!” (v. 29).

Del tutto simile è l’episodio raccontato dall’evangelista Marco (cf. 9,38-43.45.47-48). Giovanni dice a Gesù: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva” (v. 38). E Gesù: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me” (v. 39).

I due racconti attirano l’attenzione su un punto: la libertà dello Spirito e della sua azione. È vero che Dio ci parla attraverso maestri scelti e incaricati, è vero anche che si è scelto una chiesa a cui ha affidato il compito di annunciarlo al mondo, ed è altrettanto vero che egli opera attraverso i segni sacramentali, tuttavia egli si riserva la libertà di farsi presente e di agire anche altrove e diversamente. A questa libertà di Dio deve corrispondere nel discepolo quell’ampiezza di vedute – fatta insieme di umiltà, tolleranza, intelligenza e grandezza d’animo – di cui le risposte di Mosè e di Gesù sono un

esempio. Dietro lo scandalo e le rimostranze di Giosuè e di Giovanni la parola di Dio intende smascherare e colpire una pretesa ingiusta e indegna di Dio, meschina, che alle volte capita di incontrare in spiriti religiosi e zelanti, ma poco illuminati e ancora immaturi: Dio non dovrebbe agire solo attraverso di noi così che appaia con chiarezza che noi – noi soli – ne siamo i portatori, che noi soli siamo la sua vera comunità, che la verità è qui e non altrove? Un ragionamento che in apparenza sembra preoccuparsi della gloria di Dio e della chiesa, ma che in realtà è il contrario di quell’atteggiamento di “farsi ultimo” e “servizio” sul quale Cristo ha tanto insistito. Quella di Giovanni e degli altri discepoli è una reazione da dominatori: intendono monopolizzare, non servire. È facile ammettere che Dio ami tutti gli uomini, anche quelli diversi da noi. Più difficile è accettare che Dio sia presente anche fra di loro, che frammenti della sua verità siano dovunque, che anche uomini non “dei nostri” possano essere portatori della sua parola e della sua salvezza. I veri uomini di Dio, come Mosè e Gesù, non sono turbati da questa libertà dello Spirito, non ne sono invidiosi e non se ne sentono sminuiti: al contrario, ne godono profondamente. Sono uomini che veramente amano Dio, non se stessi, e cercano la gloria di Dio, non del proprio gruppo. Questi grandi uomini sanno che Dio parla in molti modi e che la sua azione percorre molte strade, e perciò sono sempre in ascolto di tutte le voci, da qualsiasi parte provengano. Tuttavia è anche vero che non ogni gesto viene da Dio, non ogni parola gli appartiene. Gli autentici uomini di Dio sanno ben distinguere, posseggono un criterio di discernimento che però non si identifica – e questo è il punto – con l ‘ appartenenza o meno al proprio gruppo.

Il racconto di Marco indica con chiarezza il vero criterio di discernimento: “Nel mio nome”. L’espressione è molto densa e indica un preciso e concreto riferimento a Gesù Cristo: non necessariamente e in primo luogo l appartenenza a questo o a quel gruppo (come appunto l episodio dimostra), ma una fattiva imitazione dello stile e della prassi di Gesù, una riproduzione di quell’amore a Dio e agli uomini che ha accompagnato dall’inizio alla fine la sua vita.

La sentenza con la quale Gesù conclude questo insegnamento è sorprendente e profondamente ottimista (e, forse, poco citata): “Chi non è contro di noi è per noi” (v. 40). È l’esatto contrario di un’altra sentenza molto più nota: “Chi non è con me, è contro di me” (Mt 12,30). Eppure non c’è contraddizione fra le due affermazioni perché si applicano a differenti situazioni. La sentenza di Matteo si rivolge a discepoli indecisi e amanti dei compromessi, e li richiama al dovere di scelte chiare e nette: di fronte a Cristo, o alla verità, o al bene dell’uomo, non si può restare neutrali, o di qua o di là. La sentenza di Marco si rivolge invece a discepoli tentati di integrismo.

I Padri

1. Ricevere un piccolo è accogliere Cristo

“Giovanni gli rivolse la parola: «Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava i demoni in nome tuo, ma non gliel`abbiamo permesso perché non è dei nostri»” (Mc 9,38).

Giovanni, che amava con straordinario fervore il Signore e perciò si attendeva di essere così ri-amato, riteneva che si dovesse privare del beneficio chi non ricopriva un ufficio.  E invece viene educato che nessuno va allontanato dal bene che in parte possiede, e che piuttosto dev`essere guidato a ciò che non ancora possiede. Continua infatti:  “Ma Gesú gli disse: «Non gliel`impedite. Non c`è nessuno infatti che operi miracoli nel mio nome e possa subito dopo parlar male di me. Chi infatti non è contro di voi, è con voi»” (Mc 9,39-40).  Lo stesso concetto ripete l’Apostolo: “Purché Cristo sia in ogni modo annunziato, per dispetto o con lealtà, io di questo godo e godrò!” (Fil 1,18). Ma anche se egli s’allieta per coloro che annunziano Cristo in modo non sincero (ma fanno comunque talvolta miracoli per la salvezza degli altri), consiglia che non ne vengano impediti. Tuttavia costoro per tali miracoli non possono sentirsi giustificati; anzi, in quel giorno in cui diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in nome tuo, e non abbiamo scacciato i demoni nel tuo nome, e nel tuo nome non abbiamo compiuto molti miracoli?”, essi riceveranno questa risposta: “Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi che operate l`iniquità” (Mt 7,22-23). Perciò, per quanto riguarda gli eretici e i cattivi cattolici, dobbiamo solennemente respingere non quelle credenze e quei sacramenti che essi hanno in comune con noi (e non contro di noi), ma la scissione che si oppone alla pace e alla verità, per la quale essi sono contrari a noi e non seguono il Signore in unità con noi.  «Infatti, chiunque vi darà da bere un bicchier d`acqua in mio nome, perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41).

Leggiamo nel profeta David (cf. Sal 140,4) che molti, a titolo di scusa dei loro peccati, pretendono che siano giusti gli stimoli che li spingono a peccare, cosí che, mentre volontariamente peccano, s`illudano di farlo per necessità. Il Signore, che scruta cuore e viscere, sarà capace di vedere i pensieri di ciascuno. Aveva detto: “Chiunque riceverà uno di questi fanciulli in mio nome, riceve me” (Mt 18,5). Qualcuno avrebbe potuto obiettare polemizzando: «Me lo vieta la povertà, la mia miseria mi impedisce di riceverlo», ma il Signore annulla anche questa scusa col suo lievissimo comandamento per indurci almeno a porgere con tutto il cuore un bicchier d`acqua fresca, come dice Matteo (cf. Mt 10,42).

(Beda il Vener., Commento al Vangelo di Marco 9, 38-43)

2. Il figlio della schiava e il figlio della libera

Due sono dunque i figli di Abraham, “uno dalla schiava e uno dalla libera” (Gal 4,22), Per questo colui che nasce dalla schiava, non diventa ugualmente erede con il figlio della libera, tuttavia riceve doni e non viene rimandato a mani vuote; anch`egli riceve una benedizione, ma il “figlio della libera” riceve la promessa (cf. Gal 4,23.30); anch`egli diventa “una nazione numerosa” (Gen 21,13; Gen 12,2), ma costui il popolo dell`adozione (cf. Gal 4,31; 1Pt 2,9-10).

Spiritualmente, dunque, tutti quelli che mediante la fede giungono alla conoscenza di Dio, possono essere detti figli di Abraham; ma fra questi ve ne sono alcuni che aderiscono a Dio per amore, altri per la paura e il timore del giudizio futuro. Per cui anche l`apostolo Giovanni dice: “Chi teme non è perfetto nell`amore; l`amore perfetto scaccia il timore” (1Gv 4,18). Questi dunque, che è “perfetto nell`amore”, nasce da Abraham, ed è “figlio della libera”. Chi invece custodisce i comandamenti non per amore perfetto, ma per paura della pena futura e per timore dei supplizi, certo è anch`egli figlio di Abraham, anch`egli riceve doni, cioè la ricompensa della sua opera (poiché anche chi avrà dato soltanto un bicchiere di acqua fresca per riguardo al nome di discepolo, la sua ricompensa non verrà meno [Mt 10,42]), tuttavia è inferiore a colui che è perfetto non nel timore servile, ma nella libertà dell`amore.

(Origene, Omelie sulla Genesi, 7, 4)

3. Nell`anima, e non nel corpo, si deve combattere il peccato

“Se uno dei tuoi membri ti è d`inciampo, taglialo e gettalo via da te come ci vien comandato” (Mt 5,30). E ancora: “Se un tuo occhio ti è di scandalo, strappalo e gettalo via dal tuo viso” (Mt 5,29; Mc 9,47).

Ma l`agiografo non ti insegna a distruggere realmente le tue membra: tu non devi annientare ciò che Dio ha creato, perché egli ha creato bene tutto. L`occhio non ha mai commesso un adulterio, perché questo peccato non rientra nelle sue azioni; e neppure la mano ha mai commesso furto, perché essa è per sua natura priva d`intelligenza. Vi sono adulteri ciechi e ladri monchi; non pensare, perciò, che la causa dei peccati sia nella mano o nell`occhio. Ma è il tuo spirito piuttosto che vede qualcosa e lo brama; contro di lui devi combattere. E` la bramosia cattiva che ti è di impaccio: taglia essa via da te e gettala lontano: ciò ti è comandato. Il pazzo si recide le membra, ma non allontana, con ciò, il male da sé. Una parte del suo corpo in tal modo è stata asportata e gettata, ma il peccato è ancora attivo in lui. Le membra ubbidiscono alla tua anima come docili discepoli, e configurano le loro azioni secondo il modello da essa proposto.

All`uomo esteriore corrisponde quello interiore, e l`uomo percepibile al di fuori è simile a quello nascosto, all`uomo spirituale. Anche l`uomo interiore ha occhi, ha orecchie e mani, proprio come quello esteriore e ha i suoi sensi. Chiudi i tuoi occhi e comprenderai che non solo la vista del corpo può vedere; tappa le orecchie e odi il tumulto dei tuoi pensieri! Vedi: esso ti travolge in una guerra crudele; perché tendi le tue orecchie a ciò che sta di fuori? Vedi: in casa tua vi sono i ladri; dove corri tu, dietro di loro? Perché dunque le tue membra hanno peccato? Combatti contro la tua anima! Ciò che è esterno non è in te causa di peccato: con l`interno devi sostenere battaglia. Ma anche se riuscissero a tagliare dal loro corpo la concupiscenza malvagia coloro che si son mutilati delle proprie stesse membra, non otterrebbero con ciò la giustizia.

Anche l`Apostolo, come abbiam visto sopra, biasima quei vili che sono crudeli col loro corpo, ma non vivono in onore, come conviene. Secondo la tua idea, quale tuo membro sarebbe tanto aggravato di peccati che, amputando esso solo, tu possa allontanare il male dal tuo corpo? I tuoi discorsi sono peggiori di un adulterio e ciò che ascolti è piú perverso del furto; la tua bocca commette continuamente il grave crimine dell`omicidio, le tue labbra sono come un arco teso e le tue parole producono ira; senza pietà ricopri di ridicolo coloro che si rivolgono a te. La tua lingua è piú acuta di una spada e il tuo occhio è rivolto al male. Tutto ciò è in te nascosto, e tu credi che vi sia un unico male? Se tu vuoi tagliarti un membro, taglia piuttosto questo male che hai dentro. Invece che un membro, che non ha peccato, colpisci la causa di tutte le colpe, non essere un giudice ingiusto tra il tuo corpo e la tua anima; come arbitro, non condannare l`innocente invece del colpevole. Rimprovera l`uomo spirituale che sta nascosto in te e rivolgi il tuo furore verso chi in te si cela, non verso chi in te è visibile!

(Isacco di Antiochia, Sulla Penitenza

4. Temere solo per il castigo è riprovevole

“Laggiú non morrà il loro verme né si spegnerà il fuoco che li divora” (Mc 9,43). Ascoltando queste minacce, che toccheranno certamente agli empi, alcuni, presi da timore, si astengono dal peccato. Hanno paura e per questa paura non commettono peccati. Son persone che temono [il castigo] ma non ancora amano la giustizia. Tuttavia quel timore che li spinge ad astenersi dal peccato crea in loro un`inclinazione costante per la giustizia, e ciò che prima era difficile comincia a piacere e si assapora la dolcezza di Dio. A tal punto l`uomo inizia a vivere nella giustizia non per timore delle pene ma per amore dell`eternità.

(Agostino, Enarrat. in Ps., 127, 7)